Passata la domenica, in giro in barca per la bellissima isola, lunedì si tratta di decidere come tornare a casa. Visto che non siamo passati per il Velebit all’andata, convinco Antonela che sia una buona idea passarci al ritorno. Mi dice che lei andrebbe anche a casa per la via più breve, ma decide di assecondarmi. Prendiamo il solito Marina (ma salire è più semplice che scendere essendo ora il mare calmo) e alle 00:30 di lunedì siamo a Zara. In traghetto facciamo amicizia con una coppia di lindi, educati e novellini motociclisti su una piccola moto BMW, lei bella, alta, elegante e in sandali, lui curato e in polo. Gli racconto qualcosa, gli mostro le protezioni che indossiamo e i guanti, gli stivali grattati dalla caduta per i caprioli: non capivano perché con quel caldo girassimo con back-protectors, giacche di pelle, stivali sporchi di terra, e grossi jeans sudati, sporchi di sale ed olio per aver riposato sul ponte senza nulla sotto, sia all’andata sabato che al ritorno lunedì.
Non ho voglia di dormire, anche se sono molto stanco. I discorsi con gli altri motociclisti, lo sbarco, la luce del porto: voglio partire! Convinco quell’angelo di Antonela, e dopo aver fatto benzina all’una di notte siamo in viaggio nell’altipiano desertico dell’entroterra zaratino. Decidiamo di passare dove ero passato anni fa, lungo la strada dei paesi abbandonati durante la guerra del 1992. Arrivati però circa 50 km dietro Zara, vediamo sulla carta una strada che ci permetterebbe di “tagliare” ed accorciare il nostro itinerario. Un autobus che scende da quella strada, con qualche operaio a bordo, ci fa pensare che forse possiamo affrontarla anche noi.
Dopo i primi km l’amara sorpresa, alle 01:30 di notte: l’autobus proveniva dalla cava dove si lavora al tunnel del Velebit. Oltre la cava la strada si trasforma in uno sterrato, o meglio in una stretta stradina a fondo di pietre. Siamo stanchi e a pieno carico, e con una moto da granturismo! Decidiamo di continuare. Iniziamo a salire, salire, salire, salire. La strada sempre piu’ stretta …il fondo diviene sempre più pietroso, non e’ facile tenere dritto l’avantreno, e’ buio pesto e sono stanco. Mi consola solo la presenza della mia passeggera e il rumore (musica) del motore, che in prima o in seconda (non superiamo mai i 10-20 all’ora) gira con una regolarità ed una forza incredibile.
Arriviamo ad una cappella votiva. Spegniamo il motore. Un buio totale ci circonda, silenzio assoluto. Niente luna, solo un cielo stellato incredibile. Il faro illumina un paesaggio spettrale, quasi privo di vegetazione, solo rocce e rocce e rocce, e qualche cespuglio. Tornanti stretti e in fondo in fondo le lucette della cava, varie centinaia di metri sotto. Parrebbe di stare su Marte. Solo l’ululare lontano di un cane ci riporta alla realtà con una sensazione sinistra. E’ totalmente buio, siamo totalmente isolati dal mondo.
Proseguiamo, sempre più addentrati nella montagna, sempre più isolati. Sono quasi tre di notte. Per percorrere 40km ci metteremo quasi 3 ore. Superato il passo ci troviamo su un’altopiano, sono passate le tre di notte, fa freddo e siamo stanchi. Ora dovremmo iniziare a scendere. In alcuni tratti di strada mancano i paracarri, piccoli e di pietra e sistemati ogni dieci metri. Poco utili in caso di scivolata ma almeno psicologicamente aiutano, e aiutano a capire dove termina la strada. Quando non ci sono abbiamo uno strapiombo alla nostra destra, non so quanto profondo ma sembra tanto, poiché in fondo ad un certo punto si vedono le luci della cava presso l’altra estremità del tunnel. Mi chiedo se questo posto faccia più paura di giorno o di notte. In effetti non so esattamente quale aspetto abbia, poiché l’unica fonte di luce era il faro della moto. La strada è stretta e la ruota anteriore ogni tanto affonda nelle pietre e fa perdere stabilità alla moto, devo mettere i piedi giù e strisciarli per mantenermi in equilibrio, a un paio di metri da noi c’è il vuoto. Passata una curva... ci troviamo davanti al naso il cannone di un carro armato, ed il carro armato occupa un pezzo di strada, che li’ ha uno slargo. Così illuminato dall’abbagliante della moto è una presenza molto inquietante. E’ ovviamente abbandonato e malconcio, non ho voglia di scendere ad “esplorarlo”, il cuore non ha le sue solite 70 pulsazioni al minuto.
Non facciamo in tempo a dirci “ok...cerchiamo di tornare alla civiltà...” quando, pochi metri dopo il carro armato, un grosso cane ci sbarra la strada, ringhiando e abbaiando. Non sappiamo cosa fare. Su una strada dritta e asfaltata basta ingranare la prima e la seconda, sai che ti inseguirà ma sai che in quattro secondi sei a ottanta all’ora e basta tenere saldo il manubrio per non cadere. Ma li’ il cane ci ha in pugno, su quella strada oltre venti all’ora è un suicidio, di notte e in discesa. Siamo a un paio di metri da lui, passano dei minuti interminabili. Lui abbaia, noi li fermi. Passano i minuti, la situazione non si sblocca. Dico ad Antonela “io parto piano piano in prima, e continuo a guidare, qualunque cosa succeda, finché siamo sulla moto più che tanto male non può farci”. Non ho altra scelta, ingrano la prima e pian piano mi avvicino, mi affianco, lo supero. Grazie a Dio non ci viene dietro, io neanche mi volto, sento che non ci segue. E’ fatta! Scendiamo a valle, la strada pian piano migliora, e dopo quasi 40 km rispunta l’asfalto! Quanto ho amato quell’asfalto. Finalmente sciogliamo il motore, terza, sessanta, quarta, ottanta: che velocità, che tenuta, che sensazioni! Sono passate da un bel po’ le tre di notte, finalmente siamo di nuovo sulla principale. Vediamo un camion che passa, poi un’altro! Siamo di nuovo nella civiltà (più o meno). Solo i villaggi bombardati attraverso i quali passiamo ci rattristano. Villaggi disabitati, case sventrate ed incendiate. Passiamo veloci, e la luce dell’abbagliante da’ a queste casa un’aspetto ancora più sinistro di quanto ricordavo, quando ero passato li’ di giorno.
Ci fermiamo al primo distributore, dopo Gospic, ci vestiamo, fa freddo. Sono quasi le quattro di mattina. Ho sonno, non riesco più ad impostare le curve, ogni volta devo correggere la traiettoria con i freni o con l’inclinazione della moto. Non ce la faccio più. Per fortuna incrociamo la strada che porta a Plitvice, e in quel villaggio sull’incrocio c’è un albergo, a lato della strada.
Ci fermiamo. Andiamo a dormire, sono quasi le cinque di mattina. Antonela si addormenta subito, io non riesco a dormire: i camion che passano a 70-80 all’ora fanno un rumore infernale di ferraglia con i rimorchi sulle asperità delle strada, sono a venti metri dal mio letto. Ad ogni modo credo che riesco un po’ a dormire anche io. Alle 7 e mezza decido di alzarmi. Facciamo colazione, rimontiamo i bagagli sulla moto e alle 9 partiamo. Decidiamo di raggiungere Fiume dall’interno. Ci addentriamo di nuovo nel Velebit, inizia a piovere. Siamo ora in un ambiente alpino, freddo e umido. Dopo un’ ora di viaggio un’altro contrattempo: lo sterrato che volevo prendere si rivela una pista fangosa nel bosco, estremamente scivolosa, il fondo è molle e si sprofonda facilmente. Ha piovuto molto ed è una specie di palude. Impossibile procedere. Dietro front. In questo modo abbiamo perso due ore. Torniamo indietro, e raggiungiamo l’Adriatico dopo aver percorso 40 km in una stradina larga quanto un’utilitaria, ma asfaltata, nel bosco. Di un tratto il bosco si trasforma in deserto, siamo sul costone che sovrasta Segna. Scendiamo, e siano sulla statale. Di colpo il traffico (prima nullo: anche 80 km incontrando una o due auto) si fa infernale, fa di nuovo un caldo estivo. Prima eravamo sotto i 15 gradi. Proseguiamo fino a Fiume, bloccata da traffico. Poi finalmente la veloce strada per il Tunnel nel Monte Maggiore: rieccoci in Istria. Una veloce corsa fino a Pinguente, e poi Buje, a casa.
E’ martedi’, ore 15: Laku Noc (buonanotte!).
Francesco e Antonela gestiscono un sito sui viaggi e percorsi "off road" in Istria -
IstriaLand